Oggi eccoci alla terza puntata del racconto che i nostri cari soci Antonella e Fabio si stanno divertendo a scrivere alternandosi e viaggiando con la fantasia
Questa volta è Antonella Zanca, la nostra infaticabile amica, che scrive ciò che accade ai protagonisti Mara e Nicolò .
Volete scommettere che tra qualche settimana Fabio scriverà la quarta puntata ?
Buona lettura a tutti !
Aria calda e giornate più lunghe e tanto brillare, sul terrazzo di Mara.
Lei si svegliava col sole, non voleva che mamma abbassasse le tapparelle, le piaceva la luce, le piaceva svegliarsi.
Ora, con Tobia, anche di più.
Perché il giorno del suo compleanno, il 6 febbraio, era arrivato il regalo tanto atteso, talmente tanto che non ci credeva proprio. Erano anni che chiedeva un gatto, erano anni che le dicevano di no, che le ripetevano che in casa un animale era questo ed era quello. E questo e quello erano solo problemi.
La testolina di Mara si divideva in due: una che ascoltava e capiva mamma e papà e sapeva che avevano ragione. Ma la seconda parte della sua testa si impuntava, faceva le bizze, imbronciata ripeteva tra sé: voglio un gatto voglio un gatto voglio un gatto.
Arrivò Tobia, dunque. Tobia era nel suo cuore da sempre, l’aveva sempre chiamato Tobia, il gatto dei suoi sogni, da quando aveva conosciuto il gatto di una bambina di Rivazzurra di Rimini, il suo angolo di gioia al mare. Lei, Lucia-rossa, che si distingueva da Lucia-e-basta per i capelli colorati (che tutti dicevano rossi ma a Mara sembravano arancioni) aveva un gatto, piccolo e rosso come lei, che si chiamava Tobia.
Lucia-rossa, nei pomeriggi in cui avrebbero dovuto dormire ma non ci riuscivano, la faceva giocare col suo Tobia, sul terrazzo comunicante che Mara raggiungeva in silenzio, mentre gli altri in casa facevano quello che papà chiamava pisolino e che a lei sembrava una lunghissima dormita.
Il primo Tobia della sua vita non faceva baccano, non miagolava mai, si metteva sulle gambe di Mara, si lasciava accarezzare e le faceva sentire i suoi gron-gron che parevano coccole solo per lei.
Il suo Tobia, invece, quello arrivato il 6 febbraio, era un matto, soprattutto la mattina presto e un po’ anche la notte. Mara si addormentava dopo le corse sul letto, il suo strusciarsi tra le orecchie e i capelli e il masticare potente di quella bocca che sembrava un frullatore, mentre mangiava i croccantini. Mara lo sapeva che Tobia li mangiava anche di giorno, ma di notte pareva si sentisse solo lui. E qualche volta papà si alzava a brontolare, ma poi gli piaceva troppo, quel gatto, per arrabbiarsi sul serio.
Alle cinque del mattino invece il primo gioco del giorno era correre sul letto, allungare un po’ la zampa che Mara sentiva vicino alla guancia, morbida, e poi scappare via, verso la finestra e le amate tende della nonna Nanen, coi pizzi svolazzanti e le casette ricamate. Su, a cercare di arrivare sempre più in alto; e poi giù, a rimbalzare sul pavimento di legno e riprendere la corsa verso il letto.
Mara, che odiava dormire, apprezzava tutto il tempo che poteva dedicare anche solo a guardare tutti quei numeri da circo.
Peccato essere sola. Erano sprazzi di ultra-vitalità che Tobia si concedeva al mattino presto. Poi, durante il giorno, sonnecchiava. Ora che il sole cominciava a essere padrone del terrazzo, lui sceglieva un angolo riparato dall’aria ma dove i raggi del sole regalavano il tepore massimo, e lì passava le ore, a occhi chiusi. Unico diversivo, qualche stiracchiamento.
Quel giorno Niccolò sarebbe passato per una lezione importante. Dopo croccantini e pelo e i racconti di giochi e tende (lui non ci credeva, non lo vedeva mai, Tobia, in azione, ma solo a sonnecchiare) oggi avrebbe imparato a pulire la lettiera.
Nicolò aveva detto a Mara che lo voleva anche lui, un gatto, ma pareva più lontano, il sogno: i suoi genitori non sentivano ragioni. Così lui girovagava tra i gatti del cortile (ora se ne occupava sempre lui, e Mara credeva fosse giusto, lei aveva Tobia) e il tempo che riusciva a rubare per stare con Mara a imparare.
Mara quel giorno lo accolse con una paletta in mano e tante chiacchiere.
Dopo aver fatto un giro sul terrazzo, una grattatina sotto il mento a Tobia (che subito fece le fusa e Nicolò si chiese se il suo dormire non fosse una finta, ma tanto, che importava, stava bene lui, stava bene il gatto, stava bene Mara), Mara lo portò in bagno. In un angolo c’era una grande scatola di platica con uno sportello che si muoveva, a spinta. Dentro, sassolini bianchi e sopra, in bella mostra, risaltavano due pezzetti lunghi e stretti di quella che era proprio cacca. Nicolò non ci aveva mai pensato. I gatti del cortile chissà dove la facevano. Questo gatto casalingo non poteva farla certo in giro. Ma chi glielo aveva insegnato a farla proprio lì? Mara gli spiegò. Lui la ascoltava in silenzio e pensava che fosse bellissimo stare a raccontarsi della cacca. Anche se c’era puzza, lì. Annusare e guardare e poi girarsi verso Mara e guardare anche lei. Gli lasciò usare la paletta, capì come prendere solo i pezzi di cacca e non i sassolini e gettarli nel water. Tirare l’acqua fu il trionfo: ce l’aveva fatta.
Nicolò quando tornava a casa doveva sedersi in un angolo e ripensare alle ore passate con Mara. Prendeva una penna e scriveva sul quaderno con la copertina dell’Inter. Gli piaceva scrivere le cose che aveva imparato. Non le riguardava mai, ma averle scritte gliele faceva ricordare, o meglio, gli sembrava che a quel punto fossero sue.
Quel giorno mamma lo trovò con la penna in mano e la testa in alto, a guardare le ombre sul soffitto. Non scriveva, non pensava a Tobia, pensava solo alle piccole mani di Mara che si muovevano sempre, al ritmo delle sue parole, musica e ritmo che lui avrebbe ascoltato per ore e ore e ore.
Eppure, era per il gatto che andava a trovarla, vero?