Mi chiamo Jamil e vengo dallo Sri-Lanka.

Tutte le volte che incontro qualcuno glielo devo dire, da dove vengo. Sono tutti curiosi di saperlo. Sono ormai undici anni che vivo a Milano.

All’inizio abitavo da mio cugino Umar. Mi aveva offerto una branda nella cucina della casa in via Padova.

È una casa di ringhiera. Sorrido, a pensarci. Ormai penso in italiano. La casa di ringhiera è, come dicono a Milano, una cosa vecchia ma che fa sorridere. So persino dire: “Mi sun de Milan e u abità in una cà de ringhera”

Ridono tutti, quando lo dico. Qualcuno mi prende in giro con un pizzico di cattiveria, ma in genere i sorrisi sono sinceri.

Stavo bene da Umar, ma me ne sono andato. Troppo traffico, prepara e apri il letto, disfa e piega la branda, e intanto i bambini e la moglie di Umar, sempre allegri ma sempre lì, attaccati a me. Non avevamo il posto per respirare e io ho bisogno di spazio. Da dove vengo, di spazio ne avevo molto. Non a casa, che era piccola, ma fuori c’era il mondo, largo, libero.

Siamo poveri, sempre e dovunque, ma qui, qui ce la faccio di più.

All’inizio Umar, quindi. Poi ho condiviso la casa con tre amici. Conoscenti, a dire il vero. Non è che perché ci arrangiamo nella miseria tutti insieme possiamo definirci amici. Uno dormiva tutto il giorno e di notte usciva e chissà. Aveva sempre soldi in tasca e a volte li prestava. Non gli ho mai chiesto niente. Un altro non si lavava mai. E mi dava fastidio. Ma non potevo dirglielo, non volevo offenderlo. Il terzo era Ariel, filippino. Con lui è stata subito sintonia. È stato lui a portarmi per la prima volta al mercato di via Padova, il mercoledì.

Da quando sono a Milano amo i mercoledì. Sono il mio giorno di mezzo. Poi mi sembra tutta discesa, fino a domenica. Io sono cattolico, sono tanti i cattolici in Sri-Lanka, qui fanno fatica a crederci.

La domenica vado a Messa, è il mio modo per stare con la gente. La parrocchia (che bella parola, parrocchia: ti riempie la bocca, ti senti gruppo solo a dirla) è quella di Gesù a Nazareth. Era bello, lì, prima del Covid. Ora ci sono tornato, domenica scorsa, per la prima volta. Ero emozionato. Le emozioni mi fanno sentire vivo.

Ma divago. Ero al mercato del mercoledì. Ariel aveva preso due cassette di legno, le aveva messe in verticale e aveva installato un banchetto, quasi un angolo volante. Permessi zero, paura tanta, soldi pochi, per limoni, prezzemolo, qualche avocado, sedano e rosmarino. In stagione, anche i carciofi.

La mattina presto andavamo all’ortomercato e facendo quasi dei numeri da circo compravamo quello che non comprava nessuno, portavamo via la merce più a buon mercato, poi la lavavamo e la mettevamo bene per essere mostrata. Si portava a casa la giornata.

A poco a poco ho capito, imparato, ho cominciato a parlare con le persone, con le sciure milanesi che mi hanno sempre comprato qualcosa. Ora mi sono trasferito, mi sembra di aver vinto il campionato di serie B e di essere passato alla serie A: il sabato in via Adriano! E il signore del Comune mi assegna un angolo tutti i sabati, basta arrivare presto, consegnare i documenti e mettersi in fila. Io sto bene, qui, ora che ho tutti i documenti a posto. Lavoro, durante la settimana, per la cooperativa che fa pulizie negli uffici, e il sabato vengo qui. Tutto serve, e tutto è importante. In Sri-Lanka ho una moglie e tre figli.

Prima potevamo vederci almeno due volte all’anno, ora è più di un anno che non ci vediamo. Dovevo partire ad aprile, avevo preso le ferie e il biglietto. Niente da fare. Cerco di non pensarci. Noi viviamo grazie a Skype. Ci vogliamo bene grazie al wireless del comune di Milano.

Ho guardato il calendario. Ora conosco bene anche le feste di Milano, dell’Italia.

Ferragosto viene di sabato. Ci sarà il mercato, il 15 agosto? O potrò andare a Messa e godermi la festa? Perché mi piace, lavorare, ma quando riesco a riposarmi, a vedere gente, a sedermi a guardare la Martesana e ascoltare la musica del mio paese, sì, allora è proprio festa