Oggi è tornata a scriverci la nostra carissima amica Antonella Zanca, una persona davvero speciale che non finiremo mai di ringraziare per le sue meravigliose parole
Grazie, Antonella! Questo tuo racconto ci fa davvero vedere con gli occhi(e con il cuore) la bellezza infinita del mare
Buona lettura a tutti !
Se dovessi parlar di mare racconterei del mio non essere marinaio e del mio salire su tutti i generi di barca a ricercare la libertà, nell’illusione di vivere come coloro che un paio di secoli fa decidevano di imbarcarsi proprio alla ricerca di quell’aria pulita che dentro le loro case, ammesso ne avessero una, proprio non riuscivano a trovare.
Il mio andar per mare non ha molti capitoli ma parte da molto lontano, da quei mezzi, allora di legno, da noi chiamati mosconi e da altri pattini, dove papà remava mentre io e mamma prendevamo il sole. Ho ricordi precisi di una crema solare che a quei tempi usavano tutti, con quel profumo lì che arrivava persino in mare, lontano dalla spiaggia e lasciava una scia che partiva da ognuno di noi che ogni giorno decidevamo di andare da qui a lì, mentre altri andavano da lì a qui, a mischiare profumi identici e identica ricerca di spazi solo esclusivi che esclusivi non lo erano mai.
Se dovessi parlare di mare non potrei tralasciare il gommone, il primo comprato insieme, quando mettemmo da parte qualche soldo guadagnato in lavori instabili per poterci concedere la libertà, che noi vedevamo come un galleggiamento continuo in mezzo alle onde, magari a lottare con piccole nausee, ma da soli, noi e l’acqua, noi e il vento, noi e il sole.
Se dovessi parlar di mare dovrei far transitare la mia memoria attraverso la fase di caccia (perché proprio di caccia si trattò, l’apprendimento della pesca coi natelli) e infine l’abbandono della caccia stessa quando, dopo una delle prime gite subacquee a Lavezzi, smisi di mangiare cernie e saraghi, perché se li conosci a casa loro non puoi certo pensare di mangiarli.
Mare, dunque, sopra e sotto, a imparare di cime gettate in acqua e non sul pontile e di venti e correnti che sono sempre contro quando torni, vento freddo che credi di morire anche se è estate piena e arrivi in porti sicuri che ti fanno ritrovare il fiato e il battito del cuore normale. Mare che riflette il sole, che brucia gli occhi e la pelle e che ti fa capire chi sei, dalla pelle fin dentro di te, perché è nella luce che si sa. Mare che cupo assorbe il cielo grigio e ancora di più ti insegna e ti spaventa e ti fa andare avanti per capire lui, sì, ma anche fino a che punto puoi arrivare, tu, e con chi.
Arrivare alle barche grandi, ai caicchi, alle grandi vele e scoprire che gli spazi sono sempre ristretti, e che la misura dell’amicizia e della convivenza sta nel tempo in cui ti lasciano sola, là davanti, a prua, che non sai mai se si dice prua o poppa e ti devi concentrare e poi perché iniziano tutte e due con la p che si fa così fatica a ricordare.
Mare che nel tempo ti fa superare la nausea, una volta grazie al vecchio marinaio che dice di mangiare pane secco oppure grazie a quell’altro che scuote la testa e dice solo “passerà”; e hanno ragione entrambi.
Ancora barche, su e giù dai gozzi a studiare il metodo migliore per non farsi male, tanto qualche unghia ce la lasci lo stesso.
Restano nel cuore i gommoni, che conosciamo meglio, ma ora li associamo ai viaggi della speranza e della paura. Noi ci stiamo sopra per diletto, per girovagare da un porto all’altro con bombole e attrezzature subacquee e pesi e fastidi che portano a cose buone che spesso non si riesce a raccontare e ci si accontenta di dire: l’immersione più bella, questa (perché l’ultima è sempre la migliore!)
La meta è l’acqua, dentro, fin giù. E dopo, ritornare, risalire, fare le solite figure da balenottera spiaggiata, sempre sapendo che gli altri sono più in tutto, più stabili, più sicuri. Continuare, caparbia, arrivare dentro a cercare il posto giusto, per ripensare, nel viaggio di ritorno, all’immenso che ha aperto una porta, piccola, solo per te.
A volte Michel ti cede un pezzo di panchina, a volte sei solo un umano di un certo peso che è più utile a destra o a sinistra, a equilibrare il viaggio.
Partire, sapendo che non si morirà.
Poco importa se avresti voluto abbronzarti e il sole è sempre di spalle, importa solo guardare avanti e di fianco, avanti nel futuro e di fianco, giù, a immaginare storie di abissi che ti hanno incuriosito da sempre e che hai visto, negli anni. Ti sono rimaste attaccate, come i denti di quel pesce balestra che non voleva staccarsi dalle pinne, o quella tartaruga ammaliata dal fluttuare dei tuoi capelli nella corrente, tra i coralli.
E ogni volta che il gommone balza incrociando la scia di chissà chi, ogni volta che salti sui tubolari e ancora non hai capito se devi irrigidirti oppure se lasciare che la gravità faccia ciò che deve fare, ogni volta che orgogliosa arrivi dove devi arrivare, hai lo stesso brivido di curiosa impazienza.
Mare, dunque, quello dei non marinai, quello di chi lo ama comunque, di chi conosce le diverse ombreggiature anche se non sa cosa possano significare.
Mare che ha i suoi toni da canzone lamentosa o arrabbiata, cime che cantano e gomme che stridono come solo i parabordi contro un molo di cemento sanno scricchiolare.
Mare da ignoranti che rivendicano il diritto di innamorarsi, credendosi ricambiati.